La prima volta che ho visto il video di Paracetamolo di Calcutta ho provato un pungente ribrezzo. La stessa sensazione che avevo sentito guardando L'amico di famiglia di Paolo Sorrentino. Si può probabilmente far risalire l'affinità sensoriale ai bizzarri personaggi protagonisti del video e della pellicola: in tutti e due i casi, un uomo di mezz'età dall'aspetto volutamente ripugnante innamorato di una ragazza giovane e bella, in un contesto ambientale laidamente quotidiano. In entrambi i casi la parola che è affiorata alla mia mente è stata "grottesco". Tuttavia in entrambi i casi non riuscivo a fermare la riproduzione ed anzi, ero rapita, affascinata da quel grottesco.
Mi ricordo i lontani tempi in cui Instagram era reale: le persone condividevano attimi di quotidianità: quello che stavano facendo, quello che mangiavano, quello che visitavano. Era tutto istantaneo e concreto. Molto spesso le foto erano brutte, nella maggior parte dei casi, anzi. Eppure era proprio quella tangibile bruttezza a renderle belle: la loro onestà intellettuale le rendeva belle. Oggi quando avvio Instagram vedo solo immagini perfette: composizioni in sezione aurea, ritrattistica finemente inquadrata e ritoccata, luci utilizzate magistralmente, bilanciamento di colori. Ma so che più la foto è perfetta, più è ostentatamente studiata e quindi non reale. Instagram non cattura più un istante ma è uno strumento di proiezione di un'immagine quanto più possibile lontana dall'effettivo. Tutta la bellezza che vedo su Instagram mi provoca repulsione per il bello.
La bruttezza della quotidianità, quella vera, invece, mi dà sollievo. Se vedo una foto brutta so che molto probabilmente è reale, è un esatto fermo immagine di un momento quotidiano. Niente costruzioni, niente sovrastrutture mentali socialmente imposte. Seguire morbosamente influencer che vivono in paradisi dorati ci induce ad uno stato di frustrazione per l'impossibilità di raggiungere quello stesso stile di vita, ci fa sentire ancora una volta esclusi dall'iperuranio. Invece il brutto lo viviamo quotidianamente tutti, in un modo o nell'altro, ed esso avvia un processo di gratificazione perché ci fa sentire parte di qualcosa, condiviso dalla maggioranza: il brutto suscita un'universalità sentimentale che ci fa sentire meno soli in un sistema sempre più individuale.
Calcutta ha fatto del brutto quotidiano un manifesto esistenziale, innescando un processo di mimesi in tutti quelli che non possono raggiungere la perfezione. Ha introdotto una forma di estetica in cui tutti si possono identificare, un'estetica poetica nel suo essere banale e a tratti grottesca, ma intellegibile da chiunque. Con il suo fraseggiare semplice vocalizza i sentimenti della maggioranza e anche chi non ha voce si immedesima in qualcosa, per brutto che possa essere. E tutti hanno bisogno di sentirsi parte di qualcosa.
Non so. La falsità di Instagram non ha senso, verissimo. Ma nemmeno il grottesco. Io voglio arte che mi ispiri e mi elevi. O, per lo meno, che non mi abbrutisca. Però ci rimugino su,ecco.
RispondiEliminaPenso che anche il brutto abbia una sua bellezza!
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