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Il sito dell’enciclopedia Treccani definisce il temine saturazione in questo modo: «processo attraverso cui una determinata proprietà di un corpo, un sistema, una sostanza […], tende ad assumere un valore sempre più vicino a un valore estremo che è il più alto valore compatibile con le condizioni esterne». In sostanza la saturazione è legata a due parametri: una caratteristica specifica di cui misuriamo l’entità massima e l’ambiente in cui essa viene misurata. Provate a prendere una spugna asciutta e pian piano versateci sopra dell’acqua, un po’ alla volta la spugna si inumidisce, poi si bagna, fino ad essere completamente imbevuta. A questo punto anche la spugna più capiente non sarà più in grado di assorbire l’acqua. Immaginate poi se l’ambiente in cui avete preso questa spugna era già di per sé umido: la spugna non sarà stata perfettamente asciutta all’inizio per cui la sua capacittà di assorbire acqua sarà notevolmente ridotta rispetto a quella di una spugna che si trovava in un ambiente molto secco. Ecco, io sono quella spugna, zuppa. E vivo nella Pianura Padana: dubito ci sia un ambiente più umido in cui vivere!
In genere in tutti i post di Ingegneria Applicata parlo sempre in terza persona; questo espediente mi induce quasi a pensare che gli argomenti di cui tratto non mi tocchino, ed invece delineano tutti chirurgicamente qualche aspetto della mia esistenza. Il più delle volte sono aspetti non propriamente felici e sicuramente il fatto che li abbia appellati con il tag “ingegneria” ha qualche increscioso risvolto freudiano. Nella mia mente al pensiero dell’ingegneria si accende un ricordo dolceamaro: amaro per tutta la difficoltà che ho incontrato soprattutto per capire una materia di cui non sapevo pressoché nulla, completamente da sola; dolce per la gratificazione di sapere che alla fine ce l’ho fatta e che tutta la fatica, tutta la mortificazione, tutti i fallimenti, hanno forgiato il mio carattere e mi hanno portata ad essere dura, inflessibile, determinata.
La durezza e la disciplina che ho imparato ad avere in quegli anni non troppo facili mi accompagnano ancora oggi e mi permettono di essere definita da chi mi conosce bene come una “persona efficiente”. Ma l’efficienza si paga ad un duro prezzo. Capita anche alle persone più efficienti di superare il limite di saturazione e succede in un modo subdolo: dapprima si sovrastimano le capacità di resistenza, con la conseguenza che qualcosa viene distrattamente trascurata; poi deliberatamente si decide di abbandonare il superfluo, che spesso coincide con la passione, con quello che ci piace fare ma non è strettamente indispensabile; si viene risucchiati in un vortice di impegni, incombenze, urgenze, priorità. Ma ad un certo punto anche l’inderogabile diventa insopportabilmente difficile da portare a termine e quello è il limite di saturazione. Non siamo più in grado di recepire altri stimoli, di concludere qualcosa, qualsiasi cosa sia. La spugna non assorbe più nulla. Ma l’ambiente non lo sa questo, non sa che la spugna si sta saturando e continua ad imbibirla d’acqua. E se l’ambiente ti fornisce ancora più acqua di quella che già avresti a regime, la saturazione arriva ancora più velocemente.
A questo punto la spugna ha una sola speranza di sopravvivenza: strizzarsi e ricominciare da zero in un altro ambiente.
Non capisco se questo livello di saturazione sia sopraggiunto sul lavoro o nella vita privata. In ogni caso, manderei tutti a cagare, che male non fa.
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